#SponsoredbyIsrael: influencer sì, giornalisti no

Per mostrare al mondo la propria versione sugli “aiuti umanitari” a Gaza, Israele apre le porte agli influencer ma le chiude ai giornalisti. La propaganda entra nei feed, la verità resta fuori. Il tutto ha un nome: Hasbara.

#SponsoredbyIsrael:  influencer sì, giornalisti no

Pochi giorni fa, quattro agenzie dell’ONU (FAO, UNICEF, WFP e OMS) hanno messo nero su bianco, per la prima volta, ciò che era sotto gli occhi di tutti: a Gaza c’è la carestia. La decisione scaturisce dal nuovo report dell’IPC (Classificazione integrata delle Fasi dell’Insicurezza alimentare): oltre mezzo milione di persone intrappolate nella fame, nella miseria e in morti che sarebbero evitabili.

La risposta di Israele non si fa attendere. Ma al posto di inviare cibo e aprire i corridoi umanitari, ha preferito spedire 10 influencer selezionati nella Striscia per raccontare al mondo che no, la carestia non c’è, che il cibo circola e che Tel Aviv sta facendo addirittura un lavoro straordinario con gli aiuti. Come se non suonasse paradossale il fatto che Israele “aiuti” un popolo che sta sterminando, come se un TikTok potesse smentire un rapporto ONU!

Assurdo? Non proprio. Dopo la pandemia, con i negazionisti in prima fila, la sfiducia nelle istituzioni alle stelle e l’America guidata da un presidente che a sua volta non ci crede, alcune persone tendono a credere più agli influencer che seguono che all’ONU.

E Israele, in poco tempo, ha costruito una macchina da propaganda molto potente.

Che cos'è l'Hasbara?

Il manuale è vecchio, il nome è antico: Hasbara. In ebraico significa “spiegazione”, in pratica significa propaganda travestita da comunicazione. Non più solo conferenze stampa e dichiarazioni ufficiali, la versione 2025 della Hasbara utilizza la pubblicità sui social media per creare consenso.

Infatti, dall’inizio della guerra con Hamas il campo di guerra si è esteso anche online, con Israele che da subito ha lanciato la sua campagna digitale su Google, YouTube, X e Meta. Contenuti sponsorizzati ovunque, con l’obiettivo di piegare l’opinione pubblica internazionale alla propria narrativa istituzionale sulla guerra a Gaza.

Le campagne su YouTube

Il Ministero degli Esteri israeliano non ha badato a spese. Ha comprato spazi pubblicitari su YouTube, diffusi in più lingue - italiano, inglese, francese, tedesco, greco. Video preroll e midroll, mostrati prima e durante i contenuti più popolari, scelti dall’algoritmo di Google Ads per intercettare vaste audience.

Secondo i dati ufficiali del Google Ads Transparency Center, ad agosto 2025 il governo israeliano ha all’attivo oltre 700 annunci pubblicitari. Qualche ora fa me n’è capitato proprio uno sotto gli occhi:

Il video, con tanto di luogo e data in sovrimpressione, mostra diverse scene di vita quotidiana a Gaza nelle quali i cittadini, ben vestiti e curati, cucinano e cenano al ristorante, bevono e ridono. Lo spot si chiude con un’affermazione lapidaria: “c’è cibo a Gaza, qualsiasi altra affermazione è una bugia.” Inoltre, accanto alla scritta “Sponsorizzato” compare solo la firma di YouTube, lasciando intendere che si tratti di un video promosso dalla piattaforma stessa. Per scoprire che dietro c’è il governo israeliano bisogna cliccare sulle informazioni…


Con gli influencer, Tel Aviv si vanta degli “aiuti umanitari” che distribuisce; con questi spot, invece, mostra un popolo che sembra vivere normalmente: ristoranti, bar, serate fuori.

Ma se a Gaza si cena spensierati, a cosa servono gli aiuti umanitari?

La contraddizione è talmente palese da sembrare far sembrare il governo incompetente, ma non è proprio così: quando si parla alle masse, come spiegava Gustave Le Bon, la coerenza non conta nulla. Come un pappagallo basta ripetere un messaggio - anche il più assurdo, anche il più stupido - e presto qualcuno lo prenderà per vero.

E le big tech che glielo permettono non sono complici, sono ingranaggi dello stesso meccanismo.